Quello che oggi costituisce il Fondo “Sandro e Roberta Scandolara”, allocato alla Mediateca.GO “Ugo Casiraghi” di Gorizia, è il frutto inevitabile dello smembramento di un universo di libri e della conseguente trasformazione della geografia che lo governava. Non mi riferisco tanto alla bidimensionalità evidente degli scaffali, quanto alla possibilità di ipertesto che suggerivano, nel segno della tridimensionalità, le migliaia di articoli di giornali e appunti vari, inseriti negli interstizi come iscrizioni votive.

Più in generale mi riferisco a quella vaga intuizione della realtà che una biblioteca personale cerca di riprodurre quale copia approssimativa.

Sandro Scandolara con la moglie Roberta Turrin

C’erano tanti libri di cinema nella nostra casa, ma non c’è mai stata una specifica biblioteca di cinema; perché l’ordine di cui erano dotati rispondeva a una logica più sentimentale che scientifica, ad affinità più elettive che contestuali, a passioni private più che a identità culturali. Insieme a Luca Comerio e ai Gianikian (Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi), per dire, c’erano i numeri di una vecchia rivista di medaglieri.

La sceneggiatura di Addio alle armi era tra i romanzi americani, contigua a Guerra e cinema. La logistica della percezione di Paul Virilio, ma anche a una pubblicazione di auto d’epoca che riproduceva la jeep con cui il soldato Hemingway aveva scarrozzato per il Nord Italia durante la guerra.

I gialli di Stuart Melvin Kaminsky sulla maschera di Charlot e sull’America delle spie coloravano, col loro dorso smangiucchiato, il nero monotono di quello dei libri canonici su Charlie Chaplin e il Maccartismo. Il racconto della performance del detective californiano Toby Peters per fornire una nuova trama ad Alfred Hitchcock affiancava l’intervista di François Truffaut al maestro del brivido. I racconti di Robert Coover, fianco a fianco alla filmografia di Humphrey Bogart, suggerivano un diverso finale per Casablanca e per quell’amplesso sempre rimandato…

Conglomerati di unità, improbabili forse per chi cerca una visione che tutto tiene insieme; una complessità che si sostanzia nel frammento invece, per chi cerca la verità nella divagazione, per chi esprime devozione ai marginalia dei testi.

E se è vero che ogni biblioteca riproduce un’autobiografia stratificata, la biblioteca di cinema di Sandro Scandolara disegnava nella sua integrità il labirinto in cui lui amava perdersi da errabondo nei campi del sapere, quale era. Restio a ogni forma di efficienza, pensatore esclusivamente per diletto, bastian contrario per vocazione e formidabile irregolare, sempre.

Imballare questi libri, metterli negli scatoloni per affidarli a una Mediateca, ha costretto inevitabilmente ad uno sfoltimento di tale dispensa mentale, per affidare alla sapienza di chi li consulterà il piacere di trovare il proprio filo di Arianna, che può portare all’uscita dal labirinto, ma anche alla ridefinizione di tanti nuovi labirinti personali.

Scandolara da bambino

Per me che lo conoscevo bene, smantellare questo impianto di biblioteca è stato come “un rituale di memorazione” (sono parole di Walter Benjamin), è stato come riavvolgere la pellicola per ricostruire un percorso segnato da tante passioni, inseguite e coltivate fin dagli anni del liceo “Dante Alighieri” a Gorizia, città dove Sandro era nato il 7 ottobre 1942 e dove è mancato il 4 novembre 2015.

Più che nelle sale cinematografiche, la scoperta del cinema avviene per Sandro Scandolara nella biblioteca della “Stella Matutina”, il centro culturale dei Gesuiti di Gorizia, dove padre Sergio Katunarich raccoglieva tutte le più importanti riviste del settore. Ed è testimoniata da un giornalino al ciclostile in tre colori, che commentava le proiezioni cittadine, confrontandosi con il parere dei più importanti critici di allora.

Robert J. Flaherty più grande di Omero. Lui, che era un grande affabulatore, oltre che un provocatore impenitente, raccontava di un suo tema scolastico, in cui osava questa comparazione di fronte a un’insegnate allibita e priva degli strumenti culturali necessari per contestarla.

Tra le prime matricole alla nuova facoltà di Trento, più che la sociologia è la scoperta della montagna e della sua marginalità culturale ad interessarlo. Sull’onda di Don Milani, nei due anni trascorsi a Cogolo in Val di Sole come insegnante in una scuola media, allora più fuori del mondo di quella di Barbiana, organizza delle “trasferte culturali” mitiche. Come quella del teologo José María Gonzáles Ruiz, che andò lui stesso a prelevare in una stazioncina della bergamasca (chissà come c’era arrivato lì) e portò su in valle con una Fiat 500 scassatissima.

Ma erano anche gli anni di Basaglia quelli, e proprio da Gorizia partiva il progetto che avrebbe portato alla legge 180. E Sandro all’Ospedale Psichiatrico entra in uno dei quei gruppi di animatori culturali ai quali Basaglia, Pirella e Jervis aprivano le porte nella gestione delle famose assemblee del mattino con i malati, i cui verbali sarebbero poi confluiti nelle pagine de L’istituzione negata.

La sua più grande passione, più del cinema forse, è sempre stata la carta stampata. Ed è nel giro delle piccole case editrici e della controcultura di quegli anni che conosce il giornalista Sandro Zambetti, che lo porta a Bergamo, dove ha appena dato vita a un giornale “controfeltriano” che si chiamava Bergamo Contro.

Scandolara nel 2006 al cimitero del Père-Lachaise di Parigi davanti alla tomba di Georges Méliès

Quando Zambetti diventa presidente della Federazione Italiana Cineforum, Sandro Scandolara accompagna la collaborazione alla rivista Cineforum con la gestione della sede di Venezia. Suo Eden privato quello, dove era immerso 24 ore su 24 nelle riviste di cinema di tutto il mondo, cui non smetterà mai di abbonarsi.

Al ritorno a Gorizia negli anni ’70, nei caldi anni ’70, quando partiva la strategia della tensione con la strage di Peteano e i suoi depistaggi, c’è ancora il Cineforum.

E stavolta è gestito in stretta collaborazione con i circoli culturali della minoranza slovena, con cui Sandro inizia un sodalizio sempre più attivo, che anticipa il futuro prossimo privo di barriere politiche. La programmazione ordinaria dei film è supportata dalla pubblicazione dei Quaderni di documentazione cinematografica e da quella del Bollettino della Federazione che veniva stampato nella antica tipografia slovena.

Contemporaneamente ci sono: la gestione, per conto dell’Italnoleggio, della vecchia sala del Cinema Modernissimo e l’impegno con l’amico Darko Bratina nella rilettura del cinema jugoslavo delle origini alla Viba Film di Lubiana.

Ma gli anni ’70 sono anche gli anni di un nuovo progetto, del tutto avulso dal contesto culturale in cui si era mosso finora. Sceglie l’intervento attivo sul territorio, sull’onda dei provvedimenti politici in materia di edilizia popolare, successivi al terremoto in Friuli, che gestisce prima sul piano realizzativo, attraverso l’istituzione di una cooperativa edilizia nell’area isontina, poi sul piano della loro revisione legislativa attraverso la collaborazione con uno studio legale di Trieste.

È la fine degli anni ’80 e il mondo sta cambiando su questa linea del fronte. Le avvisaglie di quanto stava accadendo si avvertivano già tutte nelle piccole cose. È il caso ad esempio delle ridicole mediazioni diplomatiche cui aveva portato un’iniziativa intrapresa in collaborazione col l’Università Cattolica di Milano, per l’avvio di una serie di seminari estivi per studenti stranieri (soprattutto dell’Est Europa), da tenersi a Gradisca d’Isonzo.

C’è stata una guerra, anzi più di una, e la stella rossa della stazione Transalpina di Nova Gorica è scomparsa nel buio di una notte, dopo che nell’ultimo Natale della Jugoslavia si era trasformata in una cometa con la coda luminosa. Lo stato di Tito è imploso e, tra le altre cose, con esso è imploso anche il progetto culturale-politico di un’unica cinematografia nazionale che univa insieme le varie espressioni visive e linguistiche degli stati e le etnie componenti la Federativa.

L’abbattimento del confine, l’allargamento dell’Unione Europea, con la possibile fusione tra le due Gorizia in un’unica realtà culturale fanno d’ora in poi da sfondo a tutte le iniziative di Sandro Scandolara degli anni successivi. A cominciare dalla partecipazione a una serie di pubblicazioni del Kinoatelje sulla figura di Nora Gregor, la diva protagonista de La regola del gioco (1939) di Jean Renoir, simbolo dell’incrocio di lingue e destini di queste terre. Per continuare con gli articoli sulla rivista Isonzo Soča e le rubriche fisse su Il Piccolo di Gorizia.

“Nostro Cine quotidiano. Le Gorizie al cinema”, questo il titolo della rubrica che sviscerava il tema “cinema a Gorizia nel tempo” e che fece da ossatura del libro omonimo. “Piccola città” si chiamava invece la rubrica che rileggeva, calendarizzandola, la storia di Gorizia desunta dai vari giornali portavoce.

In un racconto del 2001 sulla vita di un giovane a Gorizia durante la prima guerra mondiale (La mia guerra, ed. Kinoatelje) Sandro Scandolara faceva il verso a quello di Elio Vittorini, uscito nel 1931 e, con la sua lingua fiabesca, parlava di “gioco e fantasia” abbinati al “Far West dello schermo”, riassumendo in una lapidaria sintesi il suo proprio vagabondare.

Era firmato Elio Marchi.

Si chiamava così quando voleva nascondersi.

Roberta Turrin
Gorizia, maggio 2021